New Moskow, Novembre 2499
Le note dal pianoforte sono aspre e scoordinate.
Il salone è grande, dispersivo quasi.
Le grandi mani, ruvide e graffiate, non riescono a premere singolarmente i tasti bianchi e neri della tastiera di quel pianoforte a coda; mancano di coordinamento e di grazia. Mani abituate a reggere coltelli e fucili, a coordinare granate piuttosto che note musicali. L'espressione di quel ragazzone dalla pelle nera è perplessa ma non crucciata o innervosita.
A fianco siede una ragazzina dai capelli neri e lisci, molto più giovane del ragazzo di una decina di anni. Lei ha pazienza: cerca di insegnargli a suonare il piano ogni volta che la domenica il ragazzo è invitato a pranzo in quella abitazione e mezz'ora dopo della messa in tavola lo fa esercitare.
Devi aprire maggiormente le dita.
E' inutile.
Questo lo dici tu.
Io non ho mai visto un negro che suona il pianoforte.
Oscar Peterson era un gigante del jazz. Un pianista. Di colore come te.
Lo sguardo scuro del ragazzo entra in contrasto con quello schiaro, verde, della ragazzina. A lui non era mai piaciuto suonare, ma lo lasciava fare a lei. Aveva un certo orecchio ed in quei mesi aveva scoperto la musica dalle mani della giovane Anastasiya Krushenko. A lui non piaceva suonare, ma gli piaceva ascoltare.
Me ne fai sentire un pezzo?
Lei annuisce. Suona. Lui tace e si ferma, osservando i movimenti delle mani della ragazza e ascoltando. E' brava.
Il suono si interrompe solo quando lo scoccare delle 16.00 gli ricorda che il Colonnello Generale lo attende nel suo ufficio.
Quiete diventa freddezza e calma diventa distacco.
L'espressione del viso diventa più fredda.
Si sposta dallo sgabello davanti al piano per avviarsi in direzione dell'ufficio.
Resterà lì dentro fino alle 20.30. Poi l'autista di Vladimir Krushenko lo riaccompagnerà nella zona povera della capitale, dove in un polveroso e vecchio stabile si trova il piccolo e sciagurato appartamento del ragazzo.